Panorama
L'editoriale del direttore
«C’è una notizia piccola che, nei giorni scorsi, dopo le polemiche seguite allo scontro in diretta fra Donald Trump e Volodymyr Zelensky, è passata in secondo piano. L’Ucraina ha vietato ad attori, atleti e giornalisti di lasciare il Paese, abolendo le autorizzazioni alle trasferte rilasciate dai ministeri. La decisione, con effetto retroattivo, ha annullato i lasciapassare di chi è già all’estero. Tutti a casa, dunque, tutti obbligati a rientrare per combattere il nemico. La misura adottata dalle autorità mentre si discute di un possibile cessate-il-fuoco dimostra due cose...»
Dinastie senza gloria
Dagli scontri fra gli eredi dell’Avvocato a quelli nell’impero di Leonardo Del Vecchio. Dalle faide della famiglia De Benedetti agli interessi dei Benetton che vengono prima di tutto, anche della tragedia del Ponte Morandi. Mario Giordano ha ricostruito nel suo nuovo libro le vicende - e le miserie - di quattro «dinastie» italiane. E per Panorama ne fa un’anteprima. Raccontando odii feroci di figli contro genitori, scontri di parenti «tutti contro tutti». L’obiettivo è sempre quello: il denaro. E il resto, come le imprese e le persone che quella ricchezza hanno prodotto, si possono tranquillamente sacrificare.
Cara, carissima diplomazia
Con l’azione della nuova plenipotenziaria degli Esteri, la politica dell’Unione sui grandi scenari globali (un nome per tutti: Ucraina) non brilla. In compenso «scintillano» i conti di rappresentanze e sedi straniere di Bruxelles: quasi 1,2 miliardi di euro. In vivace crescita.
Dalla Cina con... contraffazione
Sugli scaffali arriva un’impensabile quantità di alimenti provenienti dalla patria del «fake», ma la cui origine non è segnalata. E potrebbe essere pericoloso. Lo dicono gli stessi orientali che vivono in Italia.
Inge Morath, lo show è il mondo
Un lama che spunta da un’auto... Sembrerebbe un fotomontaggio, in realtà non lo è affatto. L’esemplare ritratto si chiamava Linda, aveva partecipato a uno show televisivo e usciva dal finestrino di un taxi perché lo stavano riportando a casa. A immortalarlo, nel 1957, la fotografa austriaca Inge Morath (Graz, 1923 - New York, 2002), prima fotogiornalista donna dell’agenzia Magnum. A lei, il Centro Saint-Bénin di Aosta dedica una monografica (sino al 16 marzo) di oltre 150 scatti, racconto per immagini della sua carriera dagli esordi accanto a due mostri sacri come Ernst Haas ed Henri Cartier-Bresson ai suoi principali reportage di viaggio.
Superfan, quelli che per i loro idoli spendono una follia
Acquistano «biglietti gold» per accedere al retropalco dei concerti e incontrare le popstar. Si abbonano a costosi servizi premium per ascoltare novità in anteprima e altre audio follie. Per questo sono diventati la nuova miniera nel business del settore.
TUTTE LE NEWS
Pensate alla torbida faida di casa Agnelli: madri contro figli, figli contro madri, mamma Margherita che accusa il figlio Jaki di evasione, il figlio Jaki che accusa mamma Margherita di maltrattamenti, una danza cinica e spietata attorno all’eredità, quadri spariti, tesori nei paradisi fiscali, gioielli preziosi che sfuggono all’erario, compresi un paio di orecchini che da soli valgono 78 milioni di euro (si capisce: se uno eredita un paio di orecchini da 78 milioni di euro, qual è la prima cosa che pensa? Come non pagare le tasse...). E tutto questo sfoggio di avidità mentre le fabbriche italiane della ex Fiat si spengono lasciando gli operai in mezzo alla strada.
Oppure pensate ai Del Vecchio: da tre anni non riescono a mettersi d’accordo sull’eredità del vecchio Leonardo. E si detestano a tal punto che, secondo le inchieste, uno di loro avrebbe fatto ricorso agli spioni illegali per controllare i fratelli (con corredo di polpette avvelenate e membri della famiglia accusati ingiustamente di frequentare criminali sessuali). Oppure pensate ai De Benedetti con padre e figli che si scontrano fra di loro all’arma bianca in una specie di guerra dei Roses della carta stampata, che nel frattempo è diventata carta straccia. Oppure pensate ai Benetton, alla famiglia che insegnava al mondo etica e solidarietà, ed è precipitata nell’infamia, con quelle feste a Cortina celebrate senza ritegno dopo la tragedia del ponte Morandi, mangiando e bevendo su 43 cadaveri ancora caldi. Pensate a loro che, come dicono i manager nelle telefonate che stanno agli atti dell’inchiesta: «Non capiscono un cazzo, sono indegni, vogliono solo i soldi. E pensano ai cazzi loro».
Pensate a tutto questo e siete entrati dentro Dynasty: il libro che racconta il crollo delle nostre élite economiche. Un viaggio tra ori e orrori, fra parenti e serpenti, il dietro le quinte dei poteri marci (copyright Dagospia). La prima inchiesta sul disfacimento delle grandi famiglie del capitalismo italiano.
Negli anni Ottanta, quando ho iniziato questo mestiere, quelle famiglie erano al massimo del loro splendore: si celebrava allora l’epopea dell’Avvocato, dell’Ingegnere, delCavaliere e del Contadino, con copertine patinate e interi filoni editoriali a loro dedicati, a cominciare dal libro simbolo di quella stagione Dinastie di Enzo Biagi. Li chiamavano i condottieri. Ma dove ci hanno condotto questi condottieri? Fateci caso: oggi quelle dinastie si stanno sgretolando davanti ai nostri occhi.
Nel momento del passaggio generazionale, se si esclude il caso del Cavaliere (ed è un paradosso: in vita è stato il più attaccato sul piano morale e personale ma è stato l’unico in grado di gestire senza scandalo l’eredità), tutte le altre casate delle nobiltà economica italiana sono precipitate in un abisso di liti e vizi, ripicche e colpi bassi, pubbliche vergogne e private avidità, che hanno devastato la loro storia e il nostro Paese.
Tramonto al caviale
Sono ancora tutti ricchissimi. Ma non è più una ricchezza che rende prospero il Paese, che lo aiuta a crescere, a diventare grande. Al contrario: è una ricchezza che si accumula sulle macerie dell’Italia, sulle fabbriche in crisi, sui negozi in dismissione, sugli operai in cassa integrazione. La produzione di auto dell’ex Fiat è scesa ai livelli del 1956. Le rivendite Benetton muoiono una dopo l’altra. Dell’impero De Benedetti sono rimaste solo le cliniche e poco altro. Le famiglie che dovevano far volare il Paese hanno fatto volare solo le loro liti e le loro vergogne. I loro guadagni e gli yacht alle Cayman. L’unico gruppo che continua a crescere è quello targato Del Vecchio. Ma solo perché è gestito dai manager mentregli eredi da tre anni spendono tutte le energie a farsi la guerra tra di loro senza aver ancora accettato l’eredità.
L’Italia è sul viale del tramonto, loro sul caviale del tramonto. Non sono mai stati così pieni di soldi e così poveri di dignità. Ed è terribile che questo degrado morale venga messo tutto in piazza. La piccineria esibita, spiattellata in pubblico, nei tribunali, sui giornali. Padri e nonni dei rampolli d’oro avevano vizi, ma per lo meno non li esibivano così. L’avvocato Agnelli riusciva a tenere gli scandali sotto silenzio, invece dei festini coca&trans di Lapo si sa ogni dettaglio così come delle liti fra Margherita e Jaki.
Quando Leonardo Del Vecchio è diventato il primo contribuente italiano nessuno sapeva chi fosse: era così sconosciuto che alla Rai sbagliarono il nome. Suo figlio Leonardo Maria, invece, non ha ancora combinato nulla ma è tutti i giorni sui giornali con il suo shopping compulsivo che l’ha portato negli ultimi mesi a comprare di tutto, dal Twiga e Billionaire di Briatore ai ristoranti del centro di Milano, dai Bagni Franco in Versilia alla Terme di Fiuggi, dalle quote della società della famiglia di Gianluca Vacchi a quelle della società dei figli di Sergio Leone, per non dire della bibita di Fedez. E forte dei suoi cinque miliardi di patrimonio personale non disdegna red carpet, showbiz e le foto sui social con le modelle più affascinanti, salvo poi finire indagato perché avrebbe fatto spiare pure loro...
«Porte girevoli» nei vari settori
Anche i De Benedetti hanno buttato tutto in piazza. Il padre che accusa i figli di non essere capaci a fare gli editori («Azienda sconquassata e mal gestita, un bel disastro»), i figli che rispondono al padre con sdegno. E tutto a mezzo stampa. Prima l’Ingegnere lascia i suoi amati giornali agli eredi, poi cerca di riprenderseli. Perché non sa farne a meno. Perché come tutti gli squali del capitalismo familiare è troppo egocentrico per pensare a un futuro senza di sé. E così scoppiala guerra ereditaria, con fiumi di inchiostri e veleni, con i rapporti che si gelano mentre l’impero si squaglia perdendo un pezzo dopo l’altro. Che cosa rimane oggi della potenza del condottiero che negli anni Ottanta scuoteva la Borsa e l’Europa? Dentro la Cir, come si chiama la società che da sempre controlla i patrimoni di famiglia, sono rimaste solo due attività: le strutture sanitarie della Kos e la componentistica per auto della Sogefi, o quel che resta dopo le ultime cessioni. Nient’altro, a parte la cassa piena. L’Ingegnere è entrato e uscito da ogni settore industriale senza mai costruire nulla di importante. Auto, informatica, telefonia mobile, energia, alimentare. Non c’è settore in cui non si sia cimentato. E non c’è settore da cui non se ne sia andato. A volte con le ossa rotte. A volte con le tasche piene. In ogni caso lasciando ben poco all’Italia, a parte l’esibizione della sua ricchezza. Che, ovviamente, si è goduto da cittadino svizzero.
Giuseppe Turani, uno dei giornalisti che fu a lui più vicino, lo ha definito: «Il capitalista inutile». Nel 1978 a Cupertino l’Ingegnere incontrò Steve Jobs che gli propose di partecipare all’avventura di Apple ma lui rifiutò. «Che cosa vuole questo cappellone?», pensò. Preferì entrare nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Il suo primogenito Rodolfo, invece, ha puntato sull’energia: «Sorgenia, un caso di successo», andava in giro dicendo. Peccato che Sorgenia sotto la sua gestione abbia accumulato 1,8 miliardi di euro di debiti. Se la sono portata via le banche. «Tutta colpa di Rodolfo», si è lamentato l’Ingegnere, attaccandolo direttamente.
Con l’altro figlio, Marco, il più simile al padre, per aspetto e carattere, con la stessa passione per gli yacht, gli scontri sono stati ancora più frequenti. Da sempre. L’unico figlio con cui l’Ingegnere ha mantenuto sempre buoni rapporti è il terzo, Edoardo. Ma solo perché fa il medico in Svizzera e gli cura gli acciacchi.
«Non fatelo presidente»
E Alessandro Benetton? È il nuovo capo assoluto dell’impero di Treviso, dove ormai la fabbrica delle maglie accumula solo perdite su perdite. Un miliardo e 300 milioni bruciati in dieci anni. «Se anziché chiamarsi Benetton si chiamasse Pincopalla quell’azienda sarebbe chiusa da un pezzo», mi raccontano. Non è un segreto. Lo sanno tutti. La famiglia ha cavalcato le privatizzazioni, ha succhiato soldi dalle autostrade, e ora continua a guadagnare altre attività, le più disparate. Ma dov’è finito il genio dei maglioni? E la produzione? E l’innovazione?
Dopo la morte di Gilberto e la sgangherata uscita di scena di Luciano, comanda Alessandro: si presenta come imprenditore di successo, amante dell’eleganza e dello sport, sessantenne giovanile, padre attento, uomo da copertine chic. Ma basta sollevare un po’ la coltre patinata per scoprire un’immagine assai diversa. Agli atti dell’inchiesta della Procura di Genova ci sono le telefonate dei manager del gruppo che lo descrivono come uno «che fa solo casino», «vittima della sete di pubblicità», uno «vuole i soldi» e che non va d’accordo con il resto della famiglia. «Non fate Alessandro presidente» avrebbe detto prima di morire lo zio Gilberto ai suoi manager: così emerge da un’intercettazione inedita che viene pubblicata in Dynasty. Come inedita è l’altra intercettazione in cui i manager del gruppo si lamentano degli eredi Benetton perché, nel pieno della bufera Morandi, con 43 morti appena sepolti, hanno una grande preoccupazione: non essere costretti a cambiare palestra. Più del dolore potè lo spinning.
Tesoretti e paradisi fiscali
È evidente che il passaggio generazionale sia fallito. Questi eredi non sono all’altezza dei loro padri. E così infangano non solo il presente, mapure il passato. Non distruggono solo sé stessi, ma anche coloro che li hanno preceduti. Prendete Gianni Agnelli. Quando morì, il 24 gennaio 2003, fu celebrato come un santo. «L’Avvocato della gente», titolavano i giornali «Da oggi siamo più soli». L’editoriale su La Stampa lo definiva: «L’uomo buono» che «ha dato da mangiare a tutti». Ora, invece, anche l’Avvocato è stato gettato nella polvere. Letteralmente. Nell’ultimo libro di Jennifer Clark si associa esplicitamente l’incidente del 1952 all’uso della cocaina. E dalle inchieste saltano fuori tesoretti all’estero, fondi nei paradisi fiscali e quadri nascosti nei caveau. Tanto da far venire il dubbio: la passione dell’arte era davvero solo passione per l’arte?
Lo stesso si può dire per sua moglie, donna Marella. Quando scompare a 92 anni viene celebrata come l’ultima regina d’Italia. Anche «regina degli elfi». «Principessa regale». Ma adesso, dalle beghe giudiziarie emerge il quadro di una persona un po’ diversa. Una persona che riceveva un assegno da 600 mila euro al mese («la mia pansione», con la a, la chiamava). Una persona che pur avendo ereditato case e yacht per 101,5 milioni di euro e quadri per 63,9 milioni di euro, si lamentava: «Mi hanno ridotto in mutande». Soprattutto una persona che avrebbe evaso il fisco perché, secondo la Procura, si dichiarava residente in Svizzera mentre trascorrevabuona parte del suo tempo fra Torino e Marrakesh dove nel frattempo aveva comprato un’altra villa. Perché, come è noto, tutti quelli che sono ridotti in mutande si comprano una villa a Marrakesh...
Più che rampolli, una sciagura
È così che finiscono le dinastie. E iniziano le Dinasty. Così finiscono le storie di successi. E iniziano le storie di intrighi. Così finiscono le storie dei condottieri. E iniziano le storie degli ereditieri. Ed è questa storia, tragica e a volte comica, per lo più inedita, che oggi è necessario raccontare.Chiedendosi: si può evitare tutto ciò? Uno dei manager più importanti della recente storia italiana, che ho incontrato per scrivere questo libro, mi ha confidato che negli Stati Uniti le banche, quando un imprenditore compie 70 anni, cominciano a chiedergli i piani per la successione. In Italia, invece, il tema del passaggio generazionale è rimasto lì, addormentato, abbandonato per anni, lasciato alla singola iniziativa, ognuno faccia come crede, o come può. E troppo spesso la genialità dei grandi imprenditori fa a pugni con la necessità di prevedere il futuro. Nessuno di loro riesce a pensare l’azienda senza di sé. Sono troppo egocentrici per immaginare che un giorno non ci saranno più.
Così arrivano i rampolli e combinano disastri. Però, ecco, dev’essere chiaro che questi rampolli non sono vittime. È insopportabile infatti leggere fra le righe devote dei grandi mezzi di comunicazione, ancora inginocchiati di fronte al potere del denaro, il coro della giustificazione. «Bisogna capirli, poverini: non è facile essere figlio di genitori importanti» Ma vi pare? Non è facile nascere con cinque miliardi di patrimonio personale? Non è facile vivere da re? Avere a disposizione mezzi infiniti per studiare, viaggiare, conoscere e crescere? Davvero qualcuno pensa che nascere in casa Agnelli o Benetton sia una sfiga? E che sia meglio nascere figlio di un cassintegrato di Pomigliano d’Arco? E perché? Perché il figlio del cassintegrato non può buttare tremila euro a sera per i festini coca&trans come Lapo?
No, credetemi: nelle Dynasty non ci sono vittime. A parte gli italiani, ovviamente. n
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I dannati (e i privilegiati) della guerra in Ucraina
L'editoriale del direttore
C’è una notizia piccola che, nei giorni scorsi, dopo le polemiche seguite allo scontro in diretta fra Donald Trump e Volodymyr Zelensky, è passata in secondo piano. L’Ucraina ha vietato ad attori, atleti e giornalisti di lasciare il Paese, abolendo le autorizzazioni alle trasferte rilasciate dai ministeri. La decisione, con effetto retroattivo, ha annullato i lasciapassare di chi è già all’estero. Tutti a casa, dunque, tutti obbligati a rientrare per combattere il nemico. La misura adottata dalle autorità mentre si discute di un possibile cessate-il-fuoco dimostra due cose, entrambe piuttosto illuminanti per capire quale sia la situazione a Kiev e dintorni. La prima segnala l’umore della popolazione ucraina dopo tre anni di guerra: chi può scappa e chi è riuscito a fuggire si guarda bene dal ritornare.
Il provvedimento per sospendere le lettere che consentivano di uscire dal Paese, e che derogavano alle norme imposte dalla legge marziale, serve a mettere un freno a quello che ormai è divenuto una specie di esodo, se non di massa di certo cospicuo. Con una scusa, professionale o sportiva, molti a quanto pare se la svignavano, evitando di finire in trincea. Di recente sembra sia accaduto con diversi atleti, come per esempio i due karateki che alle bombe russe hanno preferito il clima italico.
Secondo i dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, il 17 per cento della popolazione ucraina è espatriata: in totale fanno sette milioni di persone, molte delle quali sono fuggite in Germania e Polonia, ma anche in America e in Canada. Dai 40 milioni di abitanti che contava prima dell’invasione russa, oggi l’Ucraina è scesa a circa 33 milioni e coloro che se ne sono andati non sono soltanto donne e bambini, ma anche molti uomini (i maschi rappresentano il 41 per cento del totale e, se si tolgono i minori, restano almeno due milioni di persone).
Ma oltre a segnalare la stanchezza della popolazione dopo più di mille giorni di conflitto, l’editto di Zelensky contro l’espatrio dimostra anche che in trincea scarseggiano i soldati. Decimate da ondate di missili che continuano a cadere a pioggia e da decine di migliaia di diserzioni, le truppe ucraine faticano a contenere gli assalti, come ha detto J.D. Vance durante l’incontro-match alla Casa Bianca. Probabilmente è vero ciò che riferiscono le cronache, ovvero che i militari di Mosca continuano a morire come mosche, ma il numero di vittime non ferma l’avanzata di Vladimir Putin e ogni giorno le forze di Kiev sono costrette ad arretrare un poco. Oltre alle armi, che Zelensky chiede come un disco rotto dal giorno in cui i russi invasero il Paese e che ora Trump ha sospeso, servono uomini, altrimenti non solo non si riconquista un metro di terreno, ma lo si perde.
Del resto, quella delle forze in campo è sempre stata la questione principale della guerra. Anche se nel primo anno si sono attribuiti effetti miracolistici a missili e carri armati, a fare la differenza tra i due eserciti a confronto è sempre stato il numero degli effettivi sul terreno e dopo mille giorni di distruzione e sangue ne abbiamo la prova. Per sostituire i soldati caduti, Zelensky ha provato ad abbassare l’età della leva, ma a quanto pare non è stato sufficiente. Per riuscire a convincere gli ucraini a imbracciare un fucile e combattere, il parlamento ha inasprito le leggi, varando una mobilitazione militare che consente l’arruolamento e l’addestramento forzato.
Tra le norme approvate, alcune negano l’accesso ai servizi pubblici (come l’assistenza sanitaria) a chi non si sia registrato presso i centri di reclutamento, altre permettono anche la revoca della patente di guida. Ma visto che neppure il giro di vite è servito, ecco cancellata la possibilità di congedarsi dopo tre anni di guerra; mentre ai residenti maschili all’estero, per costringerli a rientrare all’interno dei confini nazionali, è stato negato il rinnovo del passaporto.
Ora arriva il divieto di espatrio. Fra tante misure, però, ce n’è una che stride ed è che i soli esentati dalle regole di arruolamento sono i parlamentari. Tutti gli altri a combattere, loro a casa. Si dice che se non fosse stata garantita l’esenzione, gli onorevoli non avrebbero votato a favore delle norme di reclutamento. Può darsi che sia vero, però questo dimostra che tra privilegiati (dalla politica) e disertori (in grado di pagarsi la fuga all’estero), alla fine in trincea sono finiti solo i poveri cristi, usati come carne da cannone in nome della libertà. Di quelli rimasti a casa.
La protesta in favore di sale di proiezione-simbolo mobilita l’«intellighenzia» di settore, accompagnata dai soliti firmatari di appelli. La stessa indignazione (preferibilmente indirizzata a destra) non scatta però quando spariscono tante edicole.
Dura ormai da un mese la mobilitazione delle Anime Belle, Attori e Pd, per «salvare trenta sale cinematografiche di Roma che rischiano di diventare ipermercati, per giunta in mani straniere. Il colpevole, naturalmente, è il rozzo governo di centrodestra, in particolare la sua versione laziale, anche se le sale sono chiuse da molti anni. E giù il tappeto rosso di firme che si stendono come sempre in queste battaglie nobili, generose, per la cultura e la salvezza del cinema. Da Paolo Sorrentino a Matteo Garrone, da Paola Cortellesi a Marco Bellocchio e Valerio Mastandrea, da Elio Germano a Pierfrancesco Favino. Poi la mobilitazione romanesca è diventata mondiale ed è arrivato un altro elenco guidato da Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e compagnia hollywoodiana al seguito. Solo per citarne alcuni: Fanny Ardant, Alfonso Cuarón, Willem Dafoe, John Landis, Isabella Rossellini, Paul Schrader, John Turturro, David Cronenberg, Spike Lee, e via dicendo.
Sempre gli stessi, contro Trump o per il cinema America de noantri. Ma che bravi. Alle anime belle non viene il dubbio che quelle sale cinematografiche siano chiuse da anni per fallimento nella gestione e negli incassi; pochi spettatori, forse troppi dipendenti, comunque impossibilità di tenerle in vita. Passo da anni davanti al cinema America a Trastevere, e avverto un senso di squallore, sporcizia e desolazione. Ma anche sale più importanti, come il Metropolitan in via del Corso... A volte provarono con esperimenti autogestiti ed è stato un altro fallimento. Verrebbe da dire alle Anime Belle, molte delle quali anche facoltose: e se provaste voi a prenderli in carico, a rilanciarli magari costituendo cooperative tra attori, registi e cineasti? Ma solo per rimetterli in sesto ci vogliono capitali importanti, con la prospettiva di un altro buco nell’acqua. E allora chi deve farlo? Ma lo Stato, il Comune, la Regione, il Denaro Pubblico. Soluzione sovietica, corrotta dall’italico assistenzialismo. E visto che da anni non si trova la quadra, per loro è meglio tenerli chiusi piuttosto che cambiare loro destinazione d’uso.
Anch’io detesto il pullulare di supermercati, jeanserie, minchionerie di vario genere che hanno preso il posto di botteghe, sale e altri esercizi. Anzi, quando penso all’impoverimento culturale e alla colonizzazione dell’ignoranza consumista, ho un quadro più completo della miseria romana, e della miseria italiana, oltre le sale cinematografiche. Se vi fate un giro per la Capitale, ricordando un passato neanche troppo remoto, vi accorgerete che tanti teatri a Roma sono chiusi da anni o vivono tra il coma e l’agonia da diverso tempo; i tre quarti delle librerie che c’erano fino agli anni Novanta non ci sono più; i tre quarti delle edicole che c’erano non ci sono più. È deprimente vedere cosa c’è al posto di librerie e luoghi di cultura: mangerie, birrerie, vestierie, telefonie, sciocchezzerie, spaccio di cannabis, kebab...E se allargate lo sguardo oltre la cultura, per esempio, al contesto religioso, vi accorgete di quante chiese e parrocchie sono oggi chiuse, quasi chiuse, deserte. Quanti conventi sono vuoti. O si parla, col vostro assordante silenzio, di riconvertire quei luoghi di culto in ristorazioni, b&b, centri sociali, nella migliore delle ipotesi luoghi di ricovero e accoglienza.
La causa di tutte queste chiusure non sono le giunte di destra, il governo Meloni, la barbarie dei fascisti al potere, o i fantomatici assalti nazisti a sale, librerie, chiese e teatri. Ma la ragione evidente è la mancanza di utenti, di frequentatori, di credenti, di lettori, di spettatori dal vivo. In una parola il mercato, o in casi più elevati la comunità, gli affini. La ragione culturale retrostante è il dominio di un modello anti-culturale e globale fondato sui consumi, le merci e la tecnologia. La stessa forza che sradica, distrugge, spegne ogni conato di appartenenza, cultura, valori, fede e che voi in ambito ideologico salutate come emancipazione, liberazione, progresso. Pensavate che liberandosi delle antiche fedi e superstizioni delle società patriarcali, avremmo avuto una più larga fruizione della cultura, del pensiero, dei libri e del senso critico. Invece è accaduto che se spegni l’una poi si spegne anche l’altra, senza il mito non regge la storia, senza religione si spegne poi anche la filosofia, senza la fede si può fare a meno anche della cultura, della storia, della scienza perfino, salvo per l’utilità che produce trasformandosi in tecnologia.
Non è il cinema la vittima o il nemico del Male Consumista, ma la civiltà, che comprende tutto, tradizioni, fede, cultura, libri, memoria storica, senso del bello, amore per l’arte... E non possono essere assurdi decreti regionali, manifesti di intellettuali e cineasti, comizi e mobilitazioni del valoroso popolo cinematografaro, a cambiare la situazione. È un discorso più radicale a cui si può rispondere solo col realismo pratico quotidiano e con un cambio di pensiero e di paradigma nelle cose grandi e lungimiranti. Entrambi estranei ai vostri indignati documenti e relative firme, che non cambiano niente, ma servono solo a mostrare la vostra superiorità etica, morale sui mostri che non la pensano come voi; per assolvervi da ogni possibile corresponsabilità e per scaricare ogni problema del nostro tempo sui barbari populisti che a causa di quella deprecabile anomalia che è la sovranità popolare, vanno al governo per via elettorale. Ma questo è un film che vi girate nelle vostre teste.
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Ci è voluta una dose abnorme di insipienza politica e sociale per demolire, man mano, una delle istituzioni più importanti della sanità italiana. Una volta si chiamava medico condotto, poi, medico di base e di famiglia. Cosa è successo distruggendo questa figura o riducendola ai minimi termini? Si è eliminato il primo e più importante referente per le questioni della salute delle famiglie, dei singoli, delle fasce più deboli della popolazione e, prima di tutto, degli anziani. Per decenni, quello che si chiamò medico condotto ha accompagnato i cittadini italiani nel loro percorso, più o meno problematico, dal punto di vista della salute. Si trattava di un dottore che dipendeva dai Comuni italiani e che prestava assistenza gratuita ai poveri e, dietro pagamento, agli altri cittadini. Fu sostituito dalla Legge numero 833 del 23 dicembre 1978 con il cosiddetto «medico di famiglia».
Doveva essere un’evoluzione di quella figura e, in effetti, poteva esserlo, perché doveva rappresentare l’organizzazione e la gestione della «presa in carico» delle persone in modo coordinato e integrato, prestando le cure primarie e facendo da interfaccia tra il paziente e le strutture che offrivano le cure più specialistiche richieste dal medico di base stesso. Ho ricordi personali meravigliosi del medico condotto della nostra famiglia, poi medico di base, che conosceva alla perfezione la storia clinica di ognuno di noi e che, in caso di necessità, ci veniva spesso a visitare a casa.
E poi ricordo anche le telefonate che faceva direttamente ai vari primari dell’ospedale di Lucca con i quali intratteneva, come ogni altro medico di base, rapporti diretti senza pastoie burocratiche, ma basati su una comune professionalità e umanità che distingueva quel periodo della storia della sanità italiana. Mi riferisco agli anni Sessanta e Settanta in particolare.
Ebbene, l’età dell’oro di quella che oggi si chiama medicina territoriale è stata frantumata a favore di una burocratizzazione di tutto il sistema, fino alla scomparsa del rapporto personale tra medico e paziente. Un disastro che si perpetua da troppi anni, del quale ci siamo occupati tante volte e di cui continueremo a occuparci convinti che se non si ripristina questo sistema i pazienti, soprattutto quelli più deboli, si troveranno sempre più soli davanti a una burocrazia che non sono in grado di affrontare perché troppo complessa e anche troppo digitalizzata. Non si può chiedere a un paziente di settanta od ottanta anni di mettersi al pc per chiedere aiuto per la propria salute. E non si può chiedere al medesimo paziente di passare ore al telefono per prenotare una visita specialistica. Tutto questo contraddice il dettato della Costituzione riguardo il diritto alla salute che deve essere assicurato a tutti, indipendentemente dalle possibilità economiche dei singoli cittadini.
Sembra che qualcosa si stia muovendo. Intanto dobbiamo ricordare che nei prossimi anni, su 37 mila medici di famiglia circa 10 mila andranno in pensione. Dunque, la riforma non è più rinviabile perché gli esiti di questo calo sarebbero disastrosi. Speriamo che la riforma della Medicina di base proposta dal ministero della Salute che fa capo al ministro Schillaci (che ancora è una bozza) veda la luce quanto prima. Comunque, potrebbe significare un passo in avanti. Certo, non sarà perfetta, perché contiene molti punti discutibili. Per esempio, la figura attuale del medico di base, che in questo momento è un libero professionista (in osservanza dell’art. 8 della Legge 502 del 1992), verrebbe a essere sostituita da quella di un medico dipendente dello Stato. I nuovi medici verrebbero dunque a essere assunti, mentre quelli più anziani potrebbero scegliere la forma del loro contratto.
Ci sono dei punti importantissimi, tra gli altri, che sono i seguenti: i medici dovrebbero garantire l’attività presso gli studi e presso le nuove cosiddette Case della comunità con orario dalle 8 alle 20 e la possibilità di realizzare, senza dover ricorrere all’ospedale, diversi esami strumentali e molte analisi; dovrebbero inoltre, questi medici, assicurare la presenza per almeno 25 ore settimanali e garantire - fatto fondamentale - visite domiciliari per chi non può recarsi in ambulatorio.
Questo di certo alleggerirebbe l’intasamento che oggi si verifica costantemente e in modo diuturno nel Pronto soccorso che, di fatto, è diventato il sostituto del medico di base. Una follia. La riforma si può discutere, emendare e migliorare, ma speriamo che sia fatta al più presto. Almeno si imbocca di nuovo la strada che porta nella direzione giusta. n
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L’ultimo comandamento di Ursula Von der Leyen è per l’appunto questo: “Una potenza di fuoco da 800 miliardi” per armare l’Europa contro la minaccia russa. Dove si debba andare a prendere questa montagna di denaro, in un continente già prostrato dalla crisi economica, occupazionale e demografica, fa parte di un piano scritto sulle nuvole. Parte di questi soldi andrebbero presi a debito, un’ulteriore zavorra sulla pelle delle future generazioni. Circa 94 sarebbero poi dirottati dal fondo per la coesione, che in teoria servirebbe a favorire la crescita dei paesi più poveri d’Europa. Ma oggi, la crescita è un optional: ci sono altre priorità. Non più la transizione ecologica, con la quale si baloccavano i membri del Politburo di Bruxelles mentre il mondo s’imbastardiva a loro insaputa. Non più l’emergenza sanitaria, non più gli eurodeliri legati ai vincoli di bilancio, che per anni hanno soffocato la crescita sull’onda dell’ideologia “zero debito”.
Adesso, l’imperativo è militare: Von der Leyen, forte di alcun consenso elettorale, preme sull’acceleratore del carro armato, e ancora una volta opinioni dissenzienti non sono ammesse. Come se dall’oggi al domani, con un piano scritto in poche ore, nella penombra dei palazzi della Mitteleuropa, il Vecchio Continente potesse dotarsi di forze armate comuni in grado di difenderne i confini. Proprio così: i confini. Quelli che sono stati snobbati per anni, quando l’Italia, il più delle volte, era la sola a chiedere una forza comune in grado di pattugliarli.
Oggi, ammesso che tale “force de frappe” da 800 miliardi possa davvero essere allestita, si aggiungono interrogativi non banali: con quali aziende della difesa dovremmo costruire l’esercito europeo? E chi lo guiderà? Chi farà in modo che i contingenti sparino nella stessa direzione? Il punto è che, mentre nelle sacre stanze comunitarie ci si incaponiva sullo zerovirgola di questo o quel bilancio, l’unità politica europea – che presiede, da sempre, a quella militare – è sempre rimasta un miraggio. Calpestato dai protagonismi sprezzanti delle Merkel, dei Sarkozy, dei Macron: tutta gente per cui l’Europa unita e tale solo se al comando ci sono loro.
E pensare che il motto che ha inaugurato, a casa nostra, la guerra in Ucraina, fu “pace o condizionatore”. Oggi ci si prepara alla guerra, e in ogni caso la bolletta del condizionatore è destinata a schizzare all’insù. Con un sospetto sempre più solido: quando i provvedimenti vengono fatti ingurgitare in fretta e furia sul tamburo dell’allarme permanente, di norma qualcuno ci guadagna. Di norma, sempre i soliti.
«Lei viene qui a difendere le borsette, ma chi difende gli italiani dalle bollette?». La battuta con cui, nel giorno della mozione di sfiducia contro il ministro del Turismo, Elly Schlein ha attaccato Daniela Santanchè è finita su tutti i giornali, ottenendo lo scopo di rimarcare la distanza fra un esecutivo apparentemente concentrato su questioni che interessano a un’élite e un’opposizione che invece si occupa di cose concrete, come il costo dell’energia.
Ma è davvero così, come vogliono far apparire la segretaria del Pd e i suoi alleati? Innanzitutto, chiariamo una cosa. Se c’è una persona che ha poco o niente a che fare con le bollette del gas e della luce questa è Daniela Santanchè, che nella sua vita si è occupata di molte cose, di pubbliche relazioni e pubblicità, di editoria, attività di ristorazione e intrattenimento, ma mai di energia. Ovviamente, capisco che nella polemica politica non si vada troppo per il sottile e dunque si intesta al ministro anche ciò che non dipende direttamente dal suo dicastero. Tuttavia, acclarato che effettivamente il costo di gas e luce nel corso degli anni è aumentato a dismisura e oggi è tra i più cari d’Europa, ci sarebbe da chiedersi di chi sia la colpa. Per i prezzi che sono costretti a pagare si lamentano le aziende e anche i cittadini, ma nessuno pare chiedersi il motivo per cui noi, a differenza di Francia e altri Paesi, dobbiamo scontare uno svantaggio che oltre a limitare la competitività delle aziende pesa sui portafogli delle famiglie.
La risposta è molto facile e va cercata nelle scelte fatte in passato, a cominciare dalle limitazioni imposte alle società di produzione dell’energia negli ultimi 60 anni. Cominciamo da quelle che hanno riguardato le centrali idroelettriche, ovvero la fonte rinnovabile per eccellenza. L’acqua è il nostro petrolio, la fonte più pulita che ci sia. Ma dal disastro del Vajont in poi costruire una diga o anche sbancare un pezzo di bosco per fare una condotta che porti a valle il corso di un torrente, e alimentare così una turbina, non è possibile, perché al primo rombo di ruspa si mobilitano ambientalisti e partiti, perciò i cantieri vengono bloccati. Dunque, se dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso abbiamo rinunciato ad accendere la luce e riscaldarci con l’energia elettrica (come al contrario avviene in altri Paesi, a cominciare dalla Svizzera), fino alla metà degli anni Ottanta avevamo una promettente industria nucleare. Ma, ahinoi è arrivato il disastro di Chernobyl, ovvero l’incidente che ha riguardato la centrale ucraina ai tempi dell’Unione sovietica. Lo spavento per la fuga radioattiva ha indotto l’opinione pubblica a diffidare anche dell’energia prodotta con l’atomo, come vent’anni prima aveva iniziato a guardare con sospetto ogni bacino idrico. Risultato, dopo che un referendum ha decretato la chiusura delle centrali nucleari, in Italia abbiamo speso un mucchio di soldi per spegnere gli impianti di Caorso, Trino Vercellese, Montalto di Castro e Sessa Aurunca.
A questo punto, per riscaldarci e accendere la luce a noi non sono rimasti che il carbone, il gas, la biomassa, i pannelli solari e le pale eoliche. Ma i primi combustibili, accusati di contribuire alle emissioni di CO2sono avversati dalla Ue e anche dalla popolazione, mentre gli impianti fotovoltaici ed eolici, a meno che non si tratti di installazioni domestiche, trovano un’infinità di resistenze da parte dei comitati ambientalisti. In pratica, non si può realizzare e non si realizza quasi nulla, perché che si tratti di bruciare la legna o di far girare le pale in mezzo al mare c’è sempre qualcuno che si oppone. Una volta bisogna salvaguardare un’area protetta, un’altra tutelare la fauna ittica, sta di fatto che resta tutto al palo. Ormai perfino Terna, la società pubblica che si occupa di mantenere efficiente la rete elettrica, è avversata e i suoi progetti, che si tratti di una cabina di alta tensione o di un impianto di energie rinnovabili, non vedono la luce.
Risultato: noi siamo costretti a importare energia dall’estero, a prezzi di mercato che di regola seguono l’andamento di guerre, catastrofi e l’altalena dei cambi, con la conseguenza di costare di più. Cioè, se oggi noi paghiamo una bolletta salata a differenza di altri cittadini europei, la colpa non è di Daniela Santanchè o del governo di cui fa parte, ma di chi negli anni non si è preoccupato delle ricadute di alcune scelte politiche. Volete sapere a chi addebitare la responsabilità? Beh, anche questa è una risposta facile. In prima fila contro le dighe e le centrali nucleari c’è sempre stata la sinistra, ovvero i predecessori di Elly Schlein. Il Pci-Pds-Ds-Pd ha sposato ogni campagna ambientalista, facendosi promotore insieme ai radicali e ai verdi dei referendum contro il nucleare, delle proteste contro le centrali di ogni tipo, comprese quelle elettriche e fotovoltaiche.
Perciò, se c’è qualcuno che non si è preoccupato del rincaro delle bollette, non è la Santanchè, bensì i compagni. I quali parlano delle borsette del ministro del Turismo, ma dovrebbero rispondere dei guai provocati al borsellino degli italiani da alcune sciagurate scelte del passato, anche recente.
Aumenti, pensioni e simil-vitalizi... I vertici di varie Regioni ritoccano le proprie «spettanze». Intanto che gli italiani stringono la cinghia.
Prendete l’avvocato Carlo Chiurazzi, regolarmente iscritto nell’albo di Matera: esercita la professione da quasi trent’anni, ma ha anche una grande passione per la politica, tanto che di recente è stato nominato nello staff del presidente della Provincia. In passato è stato senatore per una legislatura (dal 2008 al 2013) e pertanto percepisce un vitalizio come parlamentare. Ein più è stato per diverse legislature consigliere nonché assessore in Basilicata, per cui prende un secondo vitalizio dalla Regione. A67 anni, dunque, cioè all’età in cui i normali cittadini possono finalmente sperare di prendere una normale pensione, lui ne prende almeno due già da un pezzo, solo per il fatto di essere transitato per le aule della politica. A queste aggiungerà (se non ha già aggiunto) la pensione per la sua regolare attività professionale.
E se ciò vi sembra già un privilegio non da poco, non avete ancora sentito niente. Il vero scandalo, infatti, è il vitalizio da consigliere regionale dell’avvocato Chiurazzi: fino al 2022 ammontava a 6.139 euro al mese. E lo so che a voi sembrano troppi. Ma in realtà,al nostro sistema malato, sono sembrati pochi. Infatti il vitalizio è stato adeguato all’inflazione ed è stato aumentato 6.855 euro.
Dunque 716 euro in più al mese. Oltre a tutto il resto.
Che ci volete fare? Quando i prezzi aumentano gli italiani si preoccupano. Invece gli ex consiglieri regionali gongolano. Perché l’inflazione costringe a tirar la cinghia solo chi nongode del privilegio del vitalizio. Come ha rivelato un’inchiesta pubblicata sul Fatto quotidiano da Lorenzo Giarelli e Ilaria Proietti, infatti,l’adeguamento dei vitalizi corre veloce in tutte le regioni.
In Abruzzo il consigliere Giuseppe Tagliente è passato da cinquemila a 5.800 euro al mese (800 euro in più). In Umbria il consigliere regionale Maurizio Rosi è passato da 7.352 a 7.749 euro al mese (397 euro in più) e il consigliere Massimo Mantovani da 6.790 euro a 7.346 euro al mese (556 euro in più). In Emilia-Romagna il consigliere Enrico Aimi (oggi al Csm) è passato da 4.203 euro a 4.789 euro al mese (586 euro in più). In Molise i consiglieri regionali Rosario de Matteis e Antonio Di Rocco sono passati da 5.389 a 6.380 euro al mese (991 euro in più).
E in Basilicata, per non lasciare solo l’avvocato Chiurazzi, l’ex presidente Filippo Bubbico è passato da 5.238 a 5.850 euro al mese (612 euro in più).
Si potrebbe andare avanti: quelli che abbiamo elencato sono solo alcuni casi, dei tanti, sparsi per la Penisola. E so che qualcuno adesso ci accuserà: ecco i soliti populisti. Ma meglio essere populisti che vampiri. E se ci siamo permessi di disturbare ancora una volta la danarosa quiete di lorsignori è perché non ci capacitiamo del fatto che, dopo tanti anni di battaglie, di lotte, e di vergogne smascherate, ancora non capiscono che la difesa dei vitalizi è una specie di veleno per la nostra democrazia, già di per sé piuttosto malata. Sentiamo spesso lamentare la disaffezione nei confronti delle istituzioni, la poca fiducia degli elettori versi gli eletti, l’allontanamento dal voto. Ma come si può pretendere che i cittadini abbiano fiducia in una classe politica che pervicacemente difende i suoi privilegi?Come si può pretendere che i cittadini credano a chi ha votato i più feroci tagli delle pensioni salvo mettere al riparo il vitalizio per sé? Come si può pretendere che i cittadini rispettino chi continua a credersi il marchese del Grillo «e voi non siete un cazzo»?
Sia chiaro tutto quello che avviene è sempre perfettamente legale. È legale negare la pensione a chi lavora in fabbrica da trent’anni e dare invece il vitalizio a chi è stato in Parlamento una settimana. È legale massacrare chi cumula la propria pensioncina e la reversibilità del marito e permettere invece di cumulare tre vitalizi senza problemi. È legale erogare pensioni da fame a chi ha lavorato una vita ed elargire invece fino a diecimila euro al mese a chi ha «lavorato» in Regione o in Parlamento solo per pochi anni. È tutto perfettamente a norma di legge. Con un unico appunto: la legge la fanno loro. E se chi la fa mantiene per sé il massimo del vantaggio e scarica sui cittadini il massimo dello svantaggio, evidentemente poi non può stupirsi se i cittadini s’incazzano.
Però, ecco, amaramente constatiamo che la lezione non è servita a nulla. Solo negli ultimi mesi alla Regione Puglia hanno cercato di reinserire (oltre al vitalizio) l’assegno di fine mandato che era stato abolito, in Regione Toscana hanno sfacciatamente chiesto gli arretrati perché il doppio vitalizio era stato sospeso per qualche tempo e in Lombardia hanno chiesto di eliminare quei piccoli tagli al sistema dei vitalizi che erano stati faticosamente approvati nel recente passato. In fondo che ci volete fare? Le leggi le fanno loro. E così anche lo scandalo diventa perfettamente legale. C’erano una volta le sanguisughe. Purtroppo sono ancora lì.n
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Cinque anni fa irrompeva nelle nostre vite il Covid. Un virus che, per prima cosa, ci ha invecchiato più in fretta. E di cui stiamo ancora pagando le conseguenze, soprattutto i più giovani. Accettando di cedere i diritti di cittadini in cambio di protezione.
A cinque anni dal Covid ci rimane un solo desiderio: non vedere più le facce di quei giorni. Sì, le immagini di ospedali, di malati, di ambulanze e di carri funebri, le mascherine, le file, i vaccini. Ma anche le facce che ci guidarono e ci accompagnarono in quei giorni: i presidenti, a partire dal premier, i ministri, a partire dal ministro della Salute, i capataz della Sanità, i testimonial medici e mediatici del Covid, le loro voci, le loro cantilene, le loro minacce, le loro promesse, le loro prescrizioni. Non vogliamo vederli più, anche se non pochi circolano ancora, soprattutto in tv, o perfino sui massimi troni. Muoia il Covid con tutti i filistei.
Cinque anni fa il Covid ci invecchiò di colpo. Invecchiammo tutti più in fretta; donne, vecchi e bambini, giovani e adulti. Vivemmo un anno, quasi due, da vecchi, con una mezza tregua estiva. Stando reclusi in casa, vivendo da pensionati, da cagionevoli, da convalescenti, distanti da tutti, isolati dagli altri, al riparo dal mondo; curammo la nostra sopravvivenza vivendo meno, non uscendo, non viaggiando, non rischiando. Patimmo la lontananza dai corpi, e la paura per il proprio corpo, come accade ai vecchi. E come succede ai vecchi anteponemmo a tutto la salute; salvare la pelle, a ogni costo. Molti vecchi morirono a causa della pandemia ma l’Italia non diventò più giovane. Fu questo il primo, grande danno biologico che patimmo in massa. Perfino gli adolescenti invecchiarono di colpo sotto la pandemia: se un ragazzo non va a scuola, se lo separi dagli amici, se reputi ogni comitiva un’adunata sediziosa e contagiosa, se gli proibisci di stare all’aperto, viaggiare, andare per strada o fare movida, gli imponi di vivere da anziano con un corpo di giovane e pulsioni di giovane. Fummo sempre più spettatori, sempre meno attori, vivemmo la vita degli altri, a volte la morte; incollati al video e alle mansioni domestiche, alla vita stanziale e ospedaliera, alle mascherine e ai vaccini.
Restò sospeso un interrogativo che abbiamo voluto rimuovere: senza lockdown sarebbe stata davvero una catastrofe o sarebbe andata più o meno allo stesso modo senza quei sacrifici, quegli arresti domiciliari? Non abbiamo termini veri di paragone per affermarlo o per smentirlo. La storia del Covid ha due facciate: da una parte c’è la storia delle cure efficaci, della dedizione meritoria e benefica, dei tanti salvati, dei pericoli limitati o fugati. Ma dall’altra ci fu l’ondata di cure sbagliate che falcidiò agli inizi migliaia di persone, la raffica di vaccini; il regime di restrizione e di sorveglianza di cui non riusciamo ancora a quantificare i danni evitati, quelli provocati e le inutili limitazioni che ci fecero solo vivere male senza aiutarci davvero. E poi l’intolleranza e la persecuzione verso chi non si allineava, le assurde penalizzazioni...
Definimmo i giorni della pandemia come il tempo della «novida», il contrario della movida. La novida è la perdita di vita, di lavoro, di relazioni, di viaggi, di libertà, di rapporti famigliari, di occasioni che stiamo patendo per timore del virus. La novida causò depressione di massa transanagrafica. Quando finì il Covid rivedemmo gli italiani in giro, a piede libero e mente prigioniera; erano come animali spaventati che si riaffacciavano all’aperto guardinghi e mascherati, fuggitivi, pronti a evitare ogni vicinanza o assembramento. L’effetto crudo di quella lunga quarantena fu la riduzione dell’uomo, del cittadino, del pensante e del credente, ad animale. Il contagio, la quarantena, il terrorismo mediatico-governativo ci ridussero alla sfera della nuda vita. Il virus ci rese più uguali, perché ridotti alla sfera animale dei bisogni e delle paure. Uguali agli animali, privi di parola, di fede e di pensiero, di creatività e ricreazione.
La restrizione più profonda toccò la nostra visione, sia dello sguardo che della mente. Niente mondo e niente natura, niente messa in chiesa, niente mostre d’arte, niente dialoghi e niente librerie, niente cinema e niente teatro, niente concerti o sport. E anche ciò che avevamo la facoltà di fare stando a casa, come leggere e pensare, in fondo non l’abbiamo fatto, impegnati a salvaguardare la pelle, a fare ginnastica, poi incollarsi al video per non pensarci, e non pensare. Sospese le attività sociali e conviviali legate alle sfera alimentare, rimasero solo le file per i generi alimentari ai supermercati, alle farmacie e tutto ciò che attiene la vita animale: mangiare, bere, curarsi. Anche il cibo da asporto ci ridusse alla nuda vita del nutrirsi, a patto di non stare insieme, non avere compagni (cum-panis) di merenda.
La riduzione biologica è stata anche riduzione individuale, in solitudine. Rispetto agli animali perdemmo il branco e l’aria aperta. Fu salvaguardata la «nuda vita», come diceva Giorgio Agamben, la pura dimensione biologica. «Propter vitam vivendi perdere causas», diceva Giovenale; per salvare la vita perdemmo la ragione di vivere. La vita si ridusse a fisicità: tosse, starnuto, prelievo, corsetta, controllo, tampone, mascherina, vaccino: un ventaglio di prescrizioni mediche sostituì il nostro lessico, riducendolo alla sfera corporale e sanitaria. E la gente, pur maledicendo e recalcitrando, preferì la sicurezza alla libertà, accettò di cedere i diritti in cambio di protezione. Regressione allo stadio animale, ma da animali feriti e braccati. La gente accettò la sudditanza interna e internazionale, i diktat sanitari, pur di salvare la pelle. Nel nome della salute sacrificò la libertà, la vita, il lavoro, la sovranità, la felicità. Mala tempora Covid.